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C’è il tetto agli stipendi dai manager pubblici a 120mila euro. Ma la vera notizia è che i big se la scampano quasi tutti #finsubito prestito immediato


Le eccezioni sono quasi più della regola. Ci fosse già il decreto per stabilire a quali enti e organismi pubblici applicare il nuovo tetto ai compensi dei manager, l’elenco potrebbe competere in lunghezza con quello dei rami della Pubblica amministrazione esclusi dalla sforbiciata. La gestione della riduzione da 240mila a 120mila euro dei compensi di manager e dirigenti è stata una delle più travagliate della manovra arrivata oggi, mercoledì 23 ottobre, in Parlamento, trascorsa una settimana dall’approvazione in Consiglio dei ministri. Doveva essere il colpo di teatro del disegno di legge di bilancio. Fissare gli stipendi all’indennità del presidente del Consiglio. Alla fine il parametro di riferimento è stato la metà del compenso del primo presidente della Corte di cassazione. La scelta per i nuovi contratti da gennaio è stato il frutto di limature su limature ed è soltanto il massimo. La cifra finale sarà definita tenendo conto della grandezza dell’ente.

Componenti della maggioranza avevano da subito sollevato dubbi ed eccezioni. Forza Italia aveva chiesto qualche momento in più di riflessione,  Noi Moderati, formazione guidata da Maurizio Lupi e quarta gamba della coalizione, paventava il rischio di non riuscire a attirare le migliori professionalità, senza l’appeal di un compenso sostanzioso. La pressione è stata tanta e alla fine il perimetro della norma è più ristretto di quella della Pubblica amministrazione, comunque base di partenza per decidere chi dovrà stringere la cinghia o accontentarsi (per modo di dire considerate le cifre in ballo).

A giochi fatti, quando il ministero dell’Economia varerà la lista definitiva potrebbero non essere così tanti a dover pagare dazio. I vertici del Coni come il presidente Giovanni Malagò, il Maxxi e la Biennale di Venezia, l’Opera di Roma e il San Carlo di Napoli, la Fondazione Enea Biotech presieduta oggi da Giovanni Tria, la Treccani, gli enti di ricerca e gli enti parco. Queste alcune delle ipotesi.

Restano fuori con certezza Francesco Maria Chelli, presidente dell’Istat, Gabriele Fava dell’Inps, Fabrizio D’Ascenzo dell’Inail, il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini e gli omologhi di Demanio e Dogane, Alessandra Dal Verme e Roberto Alesse.  Salvi anche i vertice delle autorità indipendenti come Antitrust e Agcom, quelli delle vigilanze, da Banca d’Italia a Consob, e i  presidenti delle casse previdenziali, i quali non nutrivano particolari dubbi al riguardo e già prima del testo a chi chiedeva se temevano di poter diventare bersaglio della crociata contro i manager parlavano di “ballon d’essai”. La scampano i direttori generali delle Asl, la misura infatti fa salvi gli enti del Servizio sanitario nazionale. Le partecipate a Piazza Affari – Eni, Enel, Poste, Mps, Enav, Leonardo, Terna e Snam – erano messe al riparo già da prima. Per loro è il mercato a decidere le remunerazioni, spesso a sei zeri e da sempre fuori dai tetti anche per poter competere.

Un gran numero di controllate si fa scudo dello status di quotata pur non essendo in Borsa ma semplicemente per aver emesso bond. L’uso di obbligazioni è diffuso. Cassa Depositi e Prestiti, Sace,  Ferrovie dello Stato, Invitalia sono gli esempi più noti e società dove imporre un tetto limiterebbe la scelta dei manager. C’è persino la Rai, unica spa di Stato a dover pagare dazio in manovra. L’amministratore delegato, il meloniano Giampaolo Rossi, non dovrà sottostare al taglio dei compensi ma dovrà risparmiare sulle consulenze e sui costi del personale. Il prossimo anno la radio televisione pubblica non potrà spendere per queste voci più di quanto fatto nel 2023, l’anno dopo dovrà tagliare tutto del 2% e quello dopo ancora del 4%.

Nella realtà anche altre partecipate sono escluse ed è quasi un controsenso per un governo che ha allargato alcuni cda di peso e trasformato enti in società per azioni. Altra realtà bastonata è l’Automobile club Italia, cui il Mef chiede 50 milioni l’anno. Se non bastasse il Tesoro è pronto a mandare un proprio sceriffo a fare le pulci ai conti di tutti quegli enti o società che ricevono almeno 100mila euro di contributi pubblici. Un rappresentante di Via XX settembre entrerà a far parte dei collegi di revisione e sindacali. Per questa società scatterà una spending review sull’acquisto di beni e servizi che non potranno superare la media di quanto speso tra il 2021 e il 2023. Tutti avvisati.

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